Torniamo all’antico sara’ un progresso

Giuseppe Camerlingo
Intervento al Convegno di studi del 9 ottobre 2001 “O Verdi addio” presso l’Università di Parma – Centro Studi Archivio Barocco.

“Torniamo all’antico”
Aporie e realta’ di un indirizzo verdiano

“After a few unanswered e mails and life changing events I found myself determined to decipher the insert quote. I found it was said by a famous classical guy named Verdi. It means “return to the past, for the future” …
mmm…I think it’s quite truth
(Dopo qualche e-mail senza risposta e qualche cambiamento di vita, mi sono deciso a decifrare la citazione inserita. Ho trovato che era stata detta da un famoso “classical guy” chiamato Verdi. Significa “ritorno al passato, per il futuro” … mmm… penso sia proprio vero.)
Molti dei fans dei Weezer, quasi tutti fra i 13 e i 20 anni, si sono chiesti che cosa significasse quella frase in italiano “Torniamo all’antico, sarà un progresso” stampato nelle scarne note di accompagnamento dell’ultimo Cd del gruppo americano, catalogato fra gli scaffali dei musicstores nel genere “Alternative/New Rock”.
Il Cd è stato messo in commercio dal 15 maggio 2001 e da allora nelle chat lines dedicate ai Weezer si sono rincorsi numerosi messaggi in cui ci si chiedeva aiuto per decifrare quella frase misteriosa. Non sono tanti i giovani nordamericani che masticano parole italiane all’infuori di pizza, spaghetti e mafia, a differenza dei giovani italiani che, per forza di cose, qualche parola in più di inglese la conoscono. E d’altra parte il rock non é certo un genere italiano.
Un fatto molto insolito quindi che ha avuto l’effetto di stimolare parecchio i più curiosi. Le traduzioni, non tutte impeccabili in verità, sono comunque arrivate nella rete e il messaggio verdiano ha ricevuto un notevole consenso fra i fans. Infatti, nella breve ma rapida carriera dei Weezer, pare ci sia stata una battuta d’arresto in seguito alla pubblicazione di un precedente Cd, “Pinkerton”, che non sarebbe andato molto bene nelle vendite. Ecco perché, come spiega il leader del gruppo, tale Rivers Cuomo, bisognava ritornare ai vecchi tempi per poter “progredire”. L’antico dei Weezer si misura nell’arco dei 4 anni, anche se si intuisce all’ascolto un riferimento ai gruppi giovanili storici degli anni 60/70, ma quello che conta é che il classical guy Verdi sia venuto in aiuto e che i Weezer abbiano venduto moltissime copie di questo disco. (ascolto)
Nelle centinaia di casi in cui la famosa frase di Verdi é stata citata alla lettera, tanto da assumere decisamente status di assioma, si intravede una costante: una situazione di stallo o di crisi e la volontà di uscirne. Nel caso dei Weezer l’insuccesso di una sortita é stato recuperato con la presa di coscienza esplicita, abilmente crittografata in italiano, che la strada vecchia era quella vincente. Un’autocritica, una maturazione.
Nel caso seguente, meno significativo ma interessante per una misura della popolarità del motto, una disputa fra due fazioni, la frase é citata pro domo propria dal partito sedicente progressista:
da un gossip della rivista telematica “solocalcio”
LA JUVE DI MOGGI E DI… DOMANI
Il nuovo occupante della panchina della Juventus non è ancora stato deciso. La lotta interna tra i progressisti (fautori di Lippi: uno di loro ha citato Giuseppe Verdi, «Torniamo all’antico: sarà un progresso!») e i conservatori (pro Ancelotti) non è conclusa. L’ago della bilancia è Moggi. Che in una cena con amici ha sgranato il rosario dei più famosi cavalli di ritorno: Sacchi e Capello al Milan, il Trap alla Juve. Fiaschi a go-go.
Come si vede l’uso pretestuoso della frase viene evidenziato dal giornalista.
Più profonda e motivata, così come più vicina alle problematiche verdiane appare invece la citazione del Deputato Francesco Saverio Nitti presso l’Assemblea Costituente Italiana il 6 giugno 1947
Sui prefetti (intervento a favore della conservazione dell’istituto prefettizio nell’Italia postfascista)
….Io in questa materia ragiono come il nostro grandissimo Verdi, il quale diceva della musica: torniamo all’antico, sarà un progresso. Non voglio nessuna forma antica che non sia necessaria, ma non voglio nessuna forma che non si basi sulla realtà e che sia improvvisazione di incompetenti…..
Dal che si possono trarre due considerazioni:
Una forma antica può essere o non essere necessaria. Dipenderà da quale forma, in quale contesto e per quale obiettivo. Nessuna preclusione ideologica per una forma antica solo perché antica, né cieca accettazione senza una necessità.
Una forma nuova non é accettabile se non basata su esigenze reali e sulla conoscenza di forme antiche.
La posizione di Nitti, che supera la troppo facile antinomia fra conservatori e progressisti, per giungere ad un relativismo assolutamente pieno di buon senso, è come vedremo molto simile a quella di Verdi.
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Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi, che dimostrano in che misura e in quali vasti ambiti la citazione verdiana trova motivo di essere.
E d’altra parte il tema, mi si scusi il bisticcio di parole, é “molto antico”. Esiste una sterminata letteratura sul rapporto antico-moderno, di cui non mi azzardo in questa sede a delineare neanche una pur timidissima traccia.
François Hartog introducendo il suo interessantissimo saggio su’ Il Confronto con gli antichi (in I Greci, Noi e i Greci – Torino 1996) tenta una sintesi.
Così esordisce Hartog: “Il problema, molto semplicemente, è quello della storia dell’Occidente e della sua cultura: dagli antichi sino a noi. Quello anche del suo rapporto col tempo.”
Scusate se è poco! Ma la restrizione alla storia dell’Occidente rende la semplificazione ancora troppo limitante. Il problema é ancora più antico e include aree culturali più vaste.
Nel “Timéo” di Platone un sacerdote egizio dice a Solone: “Voi greci siete sempre bambini; non esiste un greco vecchio… Voi siete sempre giovani nell’anima, ciascuno di voi. Poichè … non avete una sola credenza che sia antica…”
Qui gli antichi sono gli egizi. Se vogliamo considerare come formanti per la cultura greca e quindi “occidentale” gli apporti della cultura egizia e, allontanandoci ancora, di quelle mesopotamiche e caldaiche, dovremo estendere il discorso alla dimensione geografica e non solo diacronica. Ciò sarà molto opportuno anche nel caso verdiano.
Alla luce del vastissimo lascito che dimostra come l’umanità abbia sempre posto massima attenzione al problema del rapporto antico-moderno, in ogni luogo e in ogni tempo, l’aforisma verdiano potrebbe sembrare piuttosto banale.
Esistono in repertorio ben altre metafore che esprimono concetti similari. Cito (dall’intervento di U. Eco al recente festival “La Milanesiana”) quella di Bernardo di Chartres “Noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell’acutezza della nostra vista, ma perchè – stando sulle loro spalle – stiamo più in alto di loro.”
O ancora quella di Melantone “Un mondo nel quale fossero sconosciuti i monumenti della cultura greca, sarebbe un mondo dove gli uomini resterebbero fanciulli, o per usare un’altra metafora, dove cercherebbero sempre la loro via a tentoni per nebbie opache.”
Di fronte alla bellezza e coloritura di tali affermazioni, il lapidario “Torniamo all’antico, sarà un progresso!”, anche se significa la stessa cosa, suona un pò rozzo e può dare adito a fraintendimenti, come in effetti si è verificato. Ma si sa, Verdi faceva della concisione una professione di fede artistica, e sapeva benissimo che era la concisione ad avere “effetto”. Anche in questo caso, come con la composizione delle sue opere, ha avuto ragione, tanto che è il suo motto e non le metafore di Bernardo e Melantone ad essere utilizzato fino ad oggi. (Per inciso, una tecnica comunicativa pienamente utilizzata e vincente nella pubblicità e nella propaganda dell’odierna società di massa. Modernità di Verdi!!)
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L’aforisma verdiano risulta quindi come un déja vu, una verità quasi scontata. Ma allora perchè ne parliamo oggi e perchè se ne è parlato così tanto dal 1871 a oggi.
L’ enorme bibliografia verdiana dedica molto spazio a questo argomento e volentieri rimando a questa coloro che volessero sviscerare il problema in tutti i suoi aspetti. Io mi limiterò a fare alcune osservazioni, segnalando però che a mio avviso il saggio di Marcello Conati pubblicato il 18 aprile 1981 dalla rivista “La Cartellina”, benissimo documentato, individua con acutezza la maggior parte delle questioni sollevate e soprattutto sgombra il campo da numerosi equivoci che, ciononostante, purtroppo si protraggono ancora oggi. Mi riferisco alla questione del passatismo e del progressismo.
Ma per procedere con ordine cerchiamo di sintetizzare i fatti.
La frase “Torniamo all’antico, sarà un progresso” è contenuta in una famosissima lettera che Verdi inviò a Francesco Florimo il 5 gennaio 1871 in risposta ad un invito a succedere a Mercadante nella direzione del Conservatorio di Napoli. Declinando l’invito (come si poteva pensare che l’accettasse?), Verdi, consapevole di essere il primo musicista italiano (con un distacco sugli altri senza precedenti), si preoccupa in tutta coscienza di dare un indirizzo didattico, utile alle nuove generazioni di musicisti, che ponesse l’accento sullo studio approfondito degli autori antichi.
Fin qui non c’é nulla di strano, nè di nuovo.
Preso come tale, l’indirizzo non era una grande novità. Era sempre stato così. Ad esempio Saverio Mattei, erudito napoletano, nominato nel 1791 direttore del Conservatorio della Pietà dei Turchini a Napoli, aveva imposto un ordo studiorum incentrato sui duetti di Steffani, i salmi di Marcello, le cantate di Leo, Durante e Scarlatti. E questo nell’epoca in cui Cimarosa e Paisiello erano i compositori di riferimento per le nuove generazioni.
Verdi d’altronde aveva studiato con Lavigna, esperto contrappuntista di scuola napoletana, che gli aveva trasmesso quel metodo didattico. La percezione di un percorso storico e la coscienza della propria posizione in questo percorso erano per Verdi assolutamente naturali, senza bisogno di leggere storie della musica (a proposito della supposta ignoranza storica di Verdi). Anche Schönberg dichiara di aver imparato la composizione musicale dai classici senza aver mai letto una storia della musica. E il giovane Picasso passava le giornate davanti ai quadri di Velazquez.
D’altronde tenendoci al significato letterale della frase, la nozione di progresso é chiaramente intesa come valore da perseguire. Il ritorno all’antico è un mezzo per raggiungere questo fine. Non si giustifica quindi nessun rimprovero di passatismo o conservatorismo.
In realtà il problema è molto più complesso, se lo si contestualizza nella situazione politica e culturale in cui si trovava la nazione italiana all’indomani dell’unità.
Scrive Conati:
Nel corso degli anni Sessanta si assiste a una rottura dei vecchi equilibri: da un lato il mercato interno si apre in misura sempre più ampia all’importazione di opere straniere e quindi all’ingresso di nuove concezioni del teatro musicale; dall’altro il disagio delle nuove generazioni si viene esprimendo attraverso reiterati tentativi di rinnovamento della vita musicale italiana al fine di ampliarne gli interessi oltre i tradizionali confini del melodramma, in particolare verso la musica strumentale.
(Ci si riferisce naturalmente non solo alla famosa contrapposizione Verdi-Wagner, ma giustamente ad un insieme di “novità”: Meyerbeer, Gounod, Auber, Flotow, Boito e le società del quartetto etc.)
In sostanza sulla dialettica antico-moderno si innesta il problema dell’identità culturale nazionale italiana in tutta la sua complessità. Si diffondono alcune semplificazioni: musica germanica (straniera) = strumentale = moderna; melodramma italiano = vocale = antico.
Verdi aveva le idee molto chiare in proposito e il suo indirizzo didattico non può non assumere connotati di una presa di posizione, alla quale egli, sempre perfettamente e lucidamente calato nel suo tempo nel corso della sua lunga vita, non poteva e non voleva sottrarsi.
Ed effettivamente dall’ esame dell’epistolario dal Macbeth (1865) fino al Falstaff (1893) si avverte chiaramente il senso di una polemica, a volte anche aspra e risentita, ma il più delle volte sarcastica, contro le tendenze cosiddette moderniste e soprattutto filogermaniche di una parte del mondo musicale italiano.
Si ha l’impressione di un’insofferenza per una confusione ideologica che viene a disturbare non tanto il suo prestigio, che rimane assolutamente intaccato e anzi…, quanto soprattutto il suo modo di essere e di concepire la creazione artistica.
Come dice Bruno Barilli “L’Arte è sempre in regola con il passato e tuttavia in perfetto orario con l’avvenire”. Era questo il pensiero di Verdi quando diceva che non aveva paura della “musica dell’avvenire”. Alludeva chiaramente a Wagner, ma soprattutto esprimeva la volontà di tirarsi fuori da categorie che non lo interessavano o perlomeno non interessavano il suo processo creativo. Le considerava assolutamente inutili. La sua arte non si era mai basata su presupposti ideologici o programmatici. Non aveva mai avuto la presunzione di determinare il futuro, di delineare una strada da percorrere.
Ricadere ancora oggi nella logica del conservatorismo e del progressismo significherebbe non aver capito lo spirito del pensiero e quindi dell’opera di Verdi. Sarebbe come accettare l’idea della sua ignoranza solo perchè egli si era professato tale, senza capire il senso sottile dell’understatement verdiano.
Ricordo che quando frequentavo i corsi di fenomenologia musicale con Celibidache, un mio collega nel porre una domanda parlò di “forme ritmiche”. Celibidache, uomo dai vastissimi orizzonti culturali, che dalla musica, alla fisica, alla fenomenologia husserliana approdavano nella fase matura della sua vita alla filosofia zen, si arrabbiò moltissimo, saltò su dicendo che lui veniva dall’Africa e che non sapeva niente di forme ritmiche. E’ vero che aveva un carattere che definire difficile sarebbe un eufemismo, ma era un atteggiamento che voleva rendere giustizia all’ineffabilità della musica. Un atteggiamento antiintellettualistico, antiideologico, analogo a quello paradossale di Stravinski quando dice che nel Trovatore c’è più musica che in tutta l’opera di Wagner. (Verdi in realtà non giunge al paradosso, almeno nelle sue lettere).
Si parla qui di personaggi, Verdi, Stravinski, Celibidache, che possedevano coscientemente e a quale grado tutti i ferri del proprio mestiere.
E arriviamo al nocciolo del problema.
Come ben rileva Conati, “il ritorno all’antico significava per Verdi sostanzialmente acquisizione degli strumenti tecnici della composizione”.
Alla contessa Maffei il 9 aprile 1873, a proposito dei musicisti “che studiano sulla falsariga di Mendelssohn, Schumann, Wagner”, parla di “dilettantismo aristocratico che per moda si trasporta a quello che non capisce”. Che ricorda un pò una posizione di Michelangelo: quegli che va continuamente dietro agli altri non anderà mai loro innanzi, e quegli che non sa far nulla di buono da se medesimo, non saprà neppure servirsi bene delle cose fatte dagli altri (cit. da Winckelmann: il bello nell’arte p. 23). E Michelangelo non aveva certo problemi né di passatismo, né di nazionalismo culturale.
Più in là con gli anni, più pacato nei toni, ma non meno convinto, il 26 dicembre 1883 (quasi 13 anni dopo la lettera a Florimo, quando il suo aforisma era ormai di vasto dominio) scrive a Giulio Ricordi “Io non disapprovo la moda (perchè bisogna essere del suo tempo), ma la vorrei accompagnata sempre da un pò di criterio e di buon senso! Dunque né passato né avvenire! E’ vero che io ho detto: “Torniamo all’antico”, ma io intendo l’antico che è base, fondamento, solidità, io intendo quell’antico che è stato messo da parte dall’esuberanza moderna, ed a cui si dovrà ritornare presto o tardi infallibilmente”.
Quale profezia, se pensiamo a Busoni, Malipiero, Casella, Petrassi, Maderna, Nono, per stare in Italia, ma anche Stravinski, lo stesso Schönberg Webern e via via fino a Penderecki, Gorecki, Arvo Pärt e per paradosso, ma non tanto, cito anche i Weezer che hanno aperto il mio intervento.
….
Per concludere vorrei fare ancora due riflessioni:
1) Nell’età del Rinascimento per essere moderni bisognava imitare gli antichi. E’noto il furore con il quale questa imitazione é stata attuata con esiti che vanno dal geniale al ridicolo.
Parimenti oggi chi voglia suonare la musica antecedente al 1800 o anche al 1830, deve, per essere al passo con il mercato moderno, utilizzare strumenti cosiddetti antichi. La tecnica di ri-costruzione, ovvero di costruzione da copie originali, si è incredibilmente sviluppata negli ultimi 25 anni, con l’aiuto di tecnologie moderne, in ossequio ad esigenze di ascolto moderne, venutesi a creare grazie alle tecniche sofisticate e modernissime di registrazione del suono, che non tollerano imperfezioni di intonazione o di qualità di suono. Sarebbe opportuno riflettere su questo paradosso, pur accettandolo con realismo, per evitare mistificazioni fuorvianti. Verdi, con la chiarezza e coerenza del suo pensiero e della sua opera, ci può aiutare in questo.
2) La seconda e ultima riflessione sfiora, ma solo molto delicatamente, il vastissimo tema del mito della modernità che da Prometeo in poi ricorre vichianamente nella storia.
In un’intervista ad una rivista musicale tedesca di 5 o 6 anni fa, György Ligeti, uno dei compositori nostri contemporanei più significativi e inventivi, dichiarava con l’atteggiamento di chi sta svelando la soluzione ad un problema di scelte compositive: Non vedo alcuna contraddizione fra tradizione e modernità; (Ich sehe keinen Widerspruch zwischen Tradition und Modernität). Questa frase, nel contesto in cui veniva detto, e dopo decenni di avanguardismo tormentato, avrebbe dovuto avere un senso illuminante, quasi una presa di coscienza, uno schwerpunkt del cammino della creazione artistica. Mi domando oggi se Ligeti abbia già completato il percorso e sia giunto alla conclusione alla quale già Verdi e molti altri prima di lui erano già arrivati e cioé che non c’è modernità senza tradizione. Dobbiamo continuare a dirlo? A quanto pare si. (Lo dicono anche i Weezer).
© Giuseppe Camerlingo
Gli Atti del convegno sono stati pubblicati da “La Finestra” Trento WWW. LA-FINESTRA.COM

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