Mozart, Mendelssohn, Beethoven – Cesena

2 MAGGIO
Mozart, Ouverture dalle “Nozze di Figaro”
L’opera Le nozze di Figaro, finita di comporre il 29 aprile, fu messa in scena al Burgtheater di Vienna il 1º maggio del 1786, diretta dal compositore nelle prime due rappresentazioni. L’opera fu scritta da Mozart in sole sei settimane e in gran segreto: la commedia in prosa di Beaumarchais da cui Da Ponte aveva tratto il libretto infatti era stata vietata dall’imperatore Giuseppe II, poiché metteva sullo stesso piano le varie classi sociali, Figaro e in Conte, Susanna e la Contessa. Eppure l’imperatore, convinto da Mozart, diede il permesso di rappresentare l’opera. Ottenne un successo strepitoso, al punto che l’imperatore dovette emanare un decreto per limitare le richieste di bis, in modo che le repliche non durassero troppo. L’ouverture, il brano di apertura, è tra le ouverture più celebri ed eseguite anche al di fuori dei teatri d’opera. In un’opera l’ouverture dovrebbe semplicemente anticipare quanto in seguito riapparirà: qui invece il materiale tematico usato si ritrova nell’opera solo in piccola parte, ma viene senz’altro introdotto il carattere giocoso di quanto va a seguire. La straordinaria vivacità musicale di questo brano, e la scrittura brillante degli archi rendono il brano del tutto autonomo, e lo hanno reso così popolare da essere stato utilizzato anche al di fuori dell’ambito colto, in contesti che vanno dal cinema alla pubblicità.
Mendelssohn, Concerto n.2 in re min per pianoforte e orchestra
Mendelssohn scrisse il secondo concerto per pianoforte e orchestra poco dopo il il suo matrimonio con Cécile Jeanrenaud. La prima esecuzione fu al Gewandhaus di Lipsia, dove era direttore d’orchestra, nell’ottobre del 1837. Il lavoro rispecchia la tradizione del concerto ottocentesco, nel brillante virtuosismo del solista che si oppone fin da subito all’orchestra, nella cantabilità del secondo tempo, quasi una “Romanza senza parole”, e nell’esuberante finale scoppiettante di vitalità. Lo stesso Mendellsohn, in una lettera alla sorella Fanny, dice: ”II concerto non è molto importante come composizione, ma al pianoforte l’ultima parte fa un effetto di fuoco di artificio, tanto che io stesso ne rido, mentre Cécile non si stanca di ascoltarlo.” E Robert Schumann, pur ammirando l’esplosione di vitalità del finale, concorda con questo giudizio nei suoi scritti: “..forse mi sbaglio, ma credo di poter affermare che egli l’ha scritto in pochi giorni, se non in poche ore. E’ come quando si scuote un albero: il frutto più maturo e più dolce cade al primo colpo”. Ma dice anche, forse un po’ pentito della durezza del giudizio. “…egli è sempre lo stesso: continua a procedere col suo solito incedere lieto e sereno, nessuno può avere sulle labbra un sorriso più bello del suo … La musica è l’effusione di un’anima bella: non importa se fluisce davanti a centinaia di persone o per se soli nel silenzio...”
Beethoven, Sinfonia n 7 in La maggiore
La “prima” della settima sinfonia di Beethoven risale all’8 dicembre 1813, in un concerto di beneficenza nell’aula magna dell’Università di Vienna. Nella stessa occasione fu anche eseguito, e con grandissimo successo di pubblico e di critica, il brano La vittoria di Wellingtong, appositamente commissionato a Beethoven per celebrare la battaglia portata a buon fine dal generale Wellington contro Napoleone, nel giugno dello stesso anno. Se il brano orchestrale celebrativo, forse anche grazie allo spirito antifrancese, mandò i viennesi in visibilio, la settima sinfonia lasciò abbastanza freddo il pubblico. Tranne per il secondo tempo, l’Allegretto, di cui – cosa impensabile nelle nostre sale da concerto, e a prova di come fosse diverso due secoli fa il rapporto fra pubblico e musicisti – fu chiesto e ottenuto immediatamente il bis. La sinfonia ebbe la stessa accoglienza anche fuori Vienna, e ci volle circa mezzo secolo perché il pubblico cambiasse opinione su quest’opera, e apprezzasse proprio ciò che aveva creato inizialmente perplessità; per arrivare insomma alla celebre definizione di Wagner: “La sinfonia è l’apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza”. La definizione è quanto mai appropriata non solo dal punto di vista emotivo, ma anche formale, in quanto questa sinfonia condivide con la suite settecentesca l’interesse per il ritmo e per la danza. Infatti ciascuno dei quattro tempi nasce da un impulso ritmico: il mi ripetuto ostinatamente per ben sessantadue volte nel passaggio fra il lento introduttivo e il Vivace che ne sprigiona, è di una continuità ritmica tale da cancellare i confini tradizionali fra temi principali e secondari e da privare di interesse la consueta tripartizione di esposizione-sviluppo-ripresa. Altrettanto ostinata è la scansione ritmica dell’Allegretto, in forma ternaria, con la nota mi sempre in primo piano e la melodia che emerge poco per volta fino al coinvolgimento di tutta l’orchestra; la danza è ancora più evidente nell’impulso ritmico irrefrenabile dello Scherzo, che trova un momento di immobilità forzata solo nel Trio; e nell’impeto sfrenato dell’Allegro con brio finale, con la sua corsa impetuosa negli scambi fra archi e fiati. Danza come sublimazione del ritmo, che percorre tutta la sinfonia in un graduale e costante crescendo d’intensità, da una lenta messa in moto fino al massimo dell’eccitazione.

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