Un testo in divenire

Nessun’opera, quanto lo Stabat Mater di Pergolesi, subì tante riduzioni e tanti adattamenti, non solo da parte degli innumerevoli interpreti che, secondo le circostanze e le disponibilità materiali, lo eseguivano nelle chiese, nelle sale da concerto o in case private, ma anche per mano di altri compositori, in alcuni casi importanti e autorevoli come Johann Sebastian Bach o Antonio Salieri e naturalmente il nostro Paisiello, che si cimentarono in trascrizioni o parodie. D’altronde il successo e la diffusione del capolavoro pergolesiano, in Europa come nelle Americhe, era assolutamente eccezionale, in un’epoca in cui non esisteva, come oggi, il concetto di repertorio e la maggior parte della musica prodotta era presto dimenticata per lasciare il posto alle nuove composizioni e ai nuovi stili. Basti pensare al destino della musica del sommo Bach, morto nel 1750: rimasta sconosciuta per alcuni decenni, fu riscoperta poi da Mozart alla fine degli anni ’80 per merito del barone van Swieten, e fu diffusa solo nell’ambito ristretto delle élites culturali austro-tedesche. Solo nel 1829 Mendelssohn ripropose un’esecuzione, peraltro parziale, della bachiana Passione secondo Matteo, inaugurando quel processo graduale di conoscenza e divulgazione della musica antica nelle sale da concerto, che è proseguito fino ai nostri giorni.
Il caso dell’enorme popolarità dello Stabat pergolesiano è quindi decisamente atipico per l’epoca, ancor di più perché, superando a volo e da subito i confini locali, si sviluppava in un ambito internazionale. La continuità della sua ricezione non era limitata solo ad una consuetudine religiosa di una determinata congrega, come ad esempio era avvenuto per lo Stabat di Alessandro Scarlatti, ma, recepito come un assoluto capolavoro universale, fu accolto ovunque con entusiasmo, e assurto a simbolo riconosciuto di uno stile e di un pensiero artistico al centro di un dibattito e di una polemica anche aspra presso gli intellettuali europei. Nello stesso tempo conquistava, con la sua naturalezza e profondità espressiva, i cuori e i sentimenti religiosi della gente comune.
È in questa luce che deve essere vista la trascrizione di Paisiello del 1810. Dal giorno della sua creazione (1736) ad oggi lo Stabat di Pergolesi non ha mai cessato di essere ascoltato ed amato. Ma in quanti modi è stato eseguito? E in quanti modi è stato recepito? Possiamo suppore con una certa sicurezza che nelle chiese napoletane nel Settecento al basso continuo contribuisse un arciliuto con l’organo, o il colascione, e che le due voci fossero sostenute da due castrati. Possiamo immaginare che nelle case dei nobili nell’Ottocento fosse suonato con l’Armonium e che certamente in molte chiese sia stato impiegato il coro in sostituzione delle voci soliste per alcuni numeri della partitura, secondo una assai usata e tuttora persistente tradizione. Sappiamo di certo che Wagner apprezzava, pur se con qualche critica, la versione per grande orchestra di Alexis Lvoff (1798-1870) con trombe, tromboni e timpani (!).
È relativamente recente l’idea che la musica del passato debba essere eseguita rigorosamente secondo il testo originale scritto dall’autore, e d’altronde gli strumenti della filologia musicale si sono accresciuti e affinati solo negli ultimi cento anni. Dobbiamo supporre quindi, confortati dalla quantità e dalla varietà delle copie dello Stabat di Pergolesi reperibili negli archivi storici di tutta Europa, che nel primo Ottocento circolassero moltissime versioni d’uso della partitura per nulla sottoposte allo scrupolo filologico al quale siamo oggi abituati. In questo modo ci possiamo spiegare la precisazione quasi enfatica che Paisiello fa apporre sul frontespizio della sua edizione stampata a Parigi nel 1810: ..senza dipartirsi dell’originalità… Precisazione che può farci sorridere oggi, visto che aggiungeva arbitrariamente gli strumenti a fiato, modificava alcuni assetti della tessitura degli archi, distribuiva, come chiaramente indicato in partitura, alcune arie e duetti sulle voci di tenore e basso (assenti in Pergolesi) facendole poi cantare insieme al soprano e al contralto nell’Amen finale, modificava parzialmente alcuni frammenti delle melodie, inseriva indicazioni dinamiche, di fraseggio e di andamento assenti in Pergolesi, introduceva nuove figure d’accompagnamento. Dunque si trattava di interventi che alteravano sensibilmente il testo pergolesiano, ma tuttavia senza tradirlo, come evidentemente molti altri avevano invece fatto e tuttora facevano. Paisiello rivendicava l’originalità dello Stabat Mater del Pergolese e di certo aveva l’autorità per farlo. Era l’ultimo rappresentante di una tradizione antica e ancora viva. Quei 74 anni di distanza (1736-1810) che lo separavano dalla morte di Pergolesi e dalla nascita dello Stabat sottendevano un arco di civiltà musicale napoletana nella sua fase più fulgente e ormai mitica. Malgrado alcune critiche ricevute, più che altro indirizzate a una sua supposta superbia opportunistica, Paisiello era l’uomo giusto per suggellare questo percorso, per la sua collocazione storica, per il prestigio internazionale, ma soprattutto per la sua sensibilità profondamente consapevole nell’interpretare lo spirito della tradizione di cui faceva parte. La maestria delicata nell’uso dei fiati gli assicurava la completa aderenza ai sentimenti espressi dalla musica di Pergolesi. Valga come esempio la splendida orchestrazione del Quando corpus morietur con quei colori caleidoscopici sempre cangianti come i vetri di un rosone, che sembrano accompagnarci verso la “gloria del paradiso”.
Per la nostra generazione, educata al rispetto per il testo originale, doveroso a causa di tante inopportune e fuorvianti incrostazioni accumulatesi nei secoli, l’ascolto di questa trascrizione ci offre un’ottima opportunità di godere del capolavoro pergolesiano in una nuova prospettiva. Per gli esecutori è una sfida perché obbliga ad un’interpretazione articolata su tre dimensioni diacroniche: noi-Pergolesi, noi-Paisiello, Paisiello-Pergolesi. In ultima analisi, ci invita anche a superare il mito dell’ “Urtext” e a considerare un testo musicale non solo come testo statico e cristallizzato una volta per tutte dal compositore, da osservare come in una teca, ma anche come un organismo che vive nel tempo e pertanto sempre mutevole e dinamico.
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